Libano

..dall’Altopiano Anatolico scendo al deserto siriano scoprendo Palmyra che riposa eterna nelle sabbie, poi Damasco. E’ da quella frontiera che faccio il mio ingresso in Libano. Al confine perdo meno tempo del previsto, e rispondo a delle domande gentilmente poste da un funzionario governativo (saranno le prime di una lunga serie), ma quella più divertente è; “lo sa che nel nostro paese è vietato l’ingresso ai veicoli diesel? ..con quale carburante funziona la sua moto?” Lo guardo interdetto, vorrei rispondergli che va ad acetilene, ma non mi sembra il caso di fare dell’umorismo. In un

paio d’ore sbrigo tutto; prendo il visto, stipulo l’assicurazione e me ne vado puntando su Beirut, sarà quella la mia base logistica e da li mi muoverò per esplorare questo paese grande poco più dell’Abruzzo. Mentre mi avvicino alla capitale mi rendo subito conto (tesi peraltro poi confermata dagli abitanti) che il Libano è invaso dal traffico e la scelta di bandire i veicoli a gasolio (tranne i camion di grossa portata) è stata indotta dal preoccupante livello di inquinamento raggiunto negli ultimi anni. Altra cosa che mi salta all’occhio è la stupefacente concentrazione di mezzi e militari ammassati lungo le strade e nei paesi, la settimana scorsa un attentato nei pressi di Sidone è costato la vita a 5 persone e proprio in questi giorni si svolgono le elezioni del Capo del Governo e del Presidente della Repubblica, è chiaro che le milizie dislocate nel paese sono state intensificate. Beirut è blindata, sacchi di sabbia ad ogni incrocio proteggono coppie di militari in tenuta antiguerriglia, enormi autoblindo sfrecciano ad alta velocità senza curarsi troppo del traffico, uno di loro a momenti mi schiaccia stringendo troppo una curva mentre sono fermo ad un semaforo. Decido di trovarmi un albergo nel quartiere di Hamra, non troppo lontano dalla “corniche”, così i libanesi chiamano il lungomare, la scelta ricade sull’Hotel Sheik. Butto i bagagli ed il casco sul letto, mi divincolo dalla tuta, scalcio gli stivali e dopo 10 minuti sono in strada. Nel centro abitato i soldati non distano più di 50 metri tra di loro, ma la gente passeggia senza curarsi di loro, anni e anni di guerra hanno assuefatto la popolazione alla costante presenza dell’esercito, per altro tutti ragazzi che pur svolgendo il loro dovere non peccano della solita arroganza che contraddistingue i militari. Mentre passeggio è inevitabile che la mia attenzione non sia catturata dai danni causati dai continui bombardamenti che la città fu sottoposta nei quasi 10 anni di guerra civile e non solo. Sono lodevoli gli sforzi del governo e l’entusiasmo della popolazione che cercano di cancellare le tremende cicatrici di quel fantasma chiamato guerra e che sembra continui a voler aleggiare in Libano. La carcassa, crivellata dai proiettili e le granate, dell’Holiday Inn giace immobile e torreggiante a due passi dalla corniche. Situato a guardia di due importanti incroci, al tempo della guerra era la postazione prediletta dei cecchini e per questo, di conseguenza, bersaglio altrettanto prediletto da tutti i tipi di armi. Aperto da poco quando scoppiò la guerra, i suoi trenta piani erano stati progettati con solidi criteri antisismici, ironia della sorte, proprio quelle accortezze nel costruirlo lo fanno giacere ancora in piedi in tutta la sua imponenza butterato dai colpi. All’ultimo piano il ristorante girevole che da trent’anni ormai non gira più. Sono nei pressi dell’American University quando un militare mi ferma chiedendomi i documenti. Fiuto all’istante che la cosa tende a farsi complicata quando, messosi in tasca il passaporto, mi chiede di visionare la macchina fotografica all’interno della quale riscontra fotografati di “soggetti vietati”. Parla un buon inglese e gli dico subito che sono disposto a cancellare le immagini non gradite, affermando a mia discolpa che è impossibile scattare delle foto senza immortalare “obbiettivi militari”,per tutta risposta mi chiede di seguirlo al comando! Non senza preoccupazione salgo in macchina e dopo pochi minuti sono seduto in una sala del comando militare di Beirut. Una serie di persone si avvicendano davanti a me, le domande più assurde fioccano da tutte le parti; il cognome da nubile della nonna paterna, le professioni svolte in precedenza e così via.. ancora un po’ e chiedo che mi mettano in contatto con l’ambasciata italiana. Seguono delle discussioni concitate tra loro, o almeno così sembra, il modo di parlare arabo è caratterizzato da improvvisi cambi di tono, ma le parole “court of justice” e “process” sono pronunciate in un inglese comprensibilissimo. Passano le ore, conosco questi metodi intimidatori e cerco di rimanere calmo ma soltanto nel tardo pomeriggio si presenta un graduato che ha l’aria di uno che veramente conta. Ha l’aspetto di una persona ragionevole, per questo gli chiedo quale sarà la sorte di un ignaro turista che per sbaglio ha fotografato il cingolo di un carro armato. Mi osserva con attenzione e prima di dirmi che finalmente me ne posso andare aggiunge; “vede, siamo costretti a tutelarci in questo modo, chi viene a Beirut, in particolar modo i giornalisti, la prima cosa che fotografano sono i militari e i mezzi dispiegati nella città per tenere sotto controllo una situazione precaria da anni. L’immagine che il mondo ha di noi, di conseguenza, è di un paese costantemente invaso da terroristi e sempre in guerra. Non vogliamo più che venga diffusa questa immagine e ricostruire il paese vuol dire anche questo!” Mentre parla ascolto con attenzione, quel che dice è vero.. Una considerazione però mi salta subito in mente e senza neanche avere il tempo di riflettere sulla pericolosità dell’affermazione sbotto –vi capisco, e avete ragione, ma non capisco perché ve la prendete con me?! ..forse perché non avete il coraggio di prendervela con la BBC o la CNN?!-. L’ufficiale si avvicina al mio volto e, socchiudendo gli occhi quasi mi sussurra “siamo stati gentili con lei, lei veda ora di esserlo lei con noi, non vorrei dover rivedere la mia decisione di lasciarla andare!”. Solo in quell’istante realizzo che per un attimo ho oltrepassato il confine, mi si gela il sangue. Prendo il passaporto che mi era stato teso e me ne vado. Esco che il sole è all’orizzonte, giusto il tempo di immortalare uno splendido tramonto, sono rimasto dentro tutto il giorno! Il Libano è un paese speciale, crogiolo di razze e religioni, un esplosione di vita e divertimento. Alla sera Beirut sembra una rinomata località balneare spagnola più che una capitale mediorientale. Forse dovuto proprio allo mescolamento, nessuna razza o religione ha prevaricato sull’altra, non si notano discriminazioni, e deliziose ragazze dalla pelle olivastra si attardano nei locali in compagnia di giovani vestiti all’ultima moda. Il mattino seguente mi sposto a Sud lungo la costa, la strada è disseminata di check point, difficile passarne uno senza essere fermati, di turisti non ne circolano molti in giro. Al posto di controllo all’ingresso di Sidone vengo fermato irrimediabilmente, le moto di qui non passano! Solo due settimane fa la città è stata teatro di atti terroristici che sono costate la vita a 5 persone e gli attentatori si sono dileguati in moto, l’ordinanza ministeriale prevede da ora in poi che nessuna moto circoli nel paese. Chiedo se c’è una strada alternativa che mi permetta di bypassare il centro, niente da fare, Sidone è stretta tra le montagne ed il mare e l’unica strada che porta a Tiro è questa. La soluzione è di ritornare a Beirut, chiedere un permesso al ministero degli interni e dopo 48 ore si avrà il lasciapassare. Non mi posso permettere di perdere 2 giorni, mi accascio seduto sul ciglio della strada e mentre mi accendo una sigaretta penso al da farsi. Sono desolato, ne ho attraversato di paesi difficili, una volta sono pure riuscito ad attraversare l’Iran senza il Carnet de Passage en Douane, ma il Libano mi sta proprio dando del filo da torcere. Sono demoralizzato e quasi sul punto di fare dietro front quando un carro attrezzi scassato si ferma poco lontano a controllare le gomme, un’idea mi fulmina la mente. Corro dal militare che mi ha stoppato poco prima e gli chiedo se il decreto ministeriale impedisca di transitare anche alle moto caricate su di un carro attrezzi. Lui mi guarda e piega la testa da un lato come se non capisse. Gli faccio cenno del camioncino fermo poco lontano, lui mi torna a guardare e sorride, “you’re crazy like an horse!” mi risponde, ma mi fa transitare. L’operazione mi costa 10 euro, mi faccio lasciare il numero di cellulare del palestinese titolare del carro attrezzi, lo richiamerò tra qualche giorno quando ritornerò indietro. Tiro è una città sonnolenta incastrata al sud del Libano, sembra destinata a morire in questa sacca, a pochi chilometri dalla frontiera Israeliana chiusa dal lontano 1948. Il paesaggio è però bellissimo, le piantagioni di agrumi e banane, dalle montagne digradano dolcemente al turchese del mare. E’ incredibile come gli avvenimenti cambino la storia, 3.000 anni fa, da questo porto così importante tanto da dare al Mediterraneo il nome di Mare di Tiro, partivano navi cariche di legno di cedro ed abili operai, alla volta di tutto il mondo allora conosciuto. Poi il lento ed inesorabile declino, che passò dalle invasioni crociate a quelle israeliane, Israele ha invaso il Libano “solo” 7 volte, e tutte le volte la prima città ad essere passata di mano fu proprio Tiro. E’ rimasto ben poco delle antiche vestigia, me ne rendo conto mentre le visito sotto un sole impietoso, la guerra non ha risparmiato neanche quelle! Stessa sorte è toccata al castello di Beaufort. E’ ad una trentina di chilometri appollaiato su un crinale battuto dal vento, mentre lo osservo ai piedi delle mura, una bandiera gialla con al centro raffigurante un braccio teso che stringe un mitra, sventola vittoriosa in cima al mastio principale. E’ la bandiera degli Ezbollah. In giro non c’è anima viva, nella guida leggo la storia della roccaforte, è stata mutilata dalle forze israeliane durante la ritirata del maggio 2000. Per cancellare le tracce della loro occupazione, gli israeliani (sempre loro) l’hanno fatto saltare per aria nonostante il governo libanese avesse chiesto di rispettare il sito storico già pesantemente danneggiato da 20 anni di guerra. Mentre mi sforzo di mantenere un atteggiamento mentale indifferente nei confronti del “popolo eletto” ridiscendo il crinale ma dopo il primo tornante compare nello specchietto una Mercedes verde. Proseguo lentamente ed al paese sottostante una macchina nera di grossa cilindrata mi sbarra la strada e lampeggia intimandomi di fermarmi, la macchina che mi segue mi chiude la strada, sono in trappola. Dalla macchina nera scendono due uomini, uno di loro ha una trasmittente in mano (probabilmente erano in contatto le due macchine), l’altro ha un  apparato che trasmette.. proiettili. Sono guerriglieri Hezbollah, letteralmente “il partito di Dio”. “Welcome to Palestina” mi dice il più grosso dei due, che fai di bello da queste parti? Sono disarmato, in tutti i sensi, al pensiero di un altro interrogatorio mi vengono i conati di vomito. Raccolgo le forze, cerco di assumere un aria tranquilla e rispondo alle domande che mi pongono. Sono loro che hanno il controllo del Sud del Libano, ecco spiegata l’assenza dei check point militari. Mi offrono del te e quando aprono il bagagliaio per estrarre il thermos, all’interno scorgo un arsenale. Le domande proseguono per diverso tempo, ma prendono una piega più di una conversazione tanto che, alla fine, sono io a farle a loro. Il tempo passa, attorno a noi un gruppo di persone e bambini fanno capannello per vedere quel motociclista spintosi fino a qua, il sole comincia ad essere basso, non era mia intenzione passare la notte qui. Quando esprimo l’intenzione di andarmene si sentono quasi offesi, fermati qui, passa la notte con noi, sarai al sicuro.. ci credo –vorrei rispondere- con quell’attrezzatura che avete in macchina! Non ho altra scelta che accettare. Sfiliamo per le strade del paese, sono scortato come un personaggio importante, mentre seguo le macchine fino all’abitazione del tipo più grosso non posso non notare i cartelloni appesi ai lampioni che ritraggono i volti degli Hezbollah morti in battaglia, sono considerati eroi. In effetti è vero, gli Hezbollah sono stati gli unici ad essere stati in grado di respingere l’esercito israeliano entro i “propri” confini. E’ già buio quando siamo all’abitazione di Tarek, la sua famiglia radunata lo aspettava con ansia, ci sono stati momenti che non sapevamo se avessimo fatto ritono alle nostre case –mi racconta- e molti di noi veramente non sono più tornati. La mia famiglia era più numerosa una volta, continua Tarek, ma la guerra mi ha rubato tre fratelli. Seduti a tavola, la cena è a base di pollo e riso, dietro di noi una fila di Kalashnikov è allineata sul muro. Al mattino di buon ora sorseggio un te, nella famiglia freme già una certa agitazione, prima di salutarli chiedo se posso fare una foto.. niente da fare. Sapevo mi sarebbe stata negata, peccato. Una foto tutti insieme mentre ci si saluta, loro con i capi avvolti nelle Kefiah, io al centro della foto, la moto carica che magari compare fuori campo e dietro una fila di mitra appoggiata al muro. Sarebbe stata da urlo. Poi rifletto un attimo e penso che è solo una becera presunzione da fotoreporter da assalto. Sono già in sella pronto a partire quando, proprio quando meno me lo aspetto, Tarek esce di casa con un fagotto in mano, all’interno una bandiera e due magliette della Resistenza Islamica. Sono euforico e fiero di quel regalo, ma l’euforia sarà destinata a scomparire quando maglietta e bandiere verranno scoperte nella perquisizione dei bagagli al confine israeliano! Da 40 giorni sono partito da casa, quanti ricordi accumulati nella mente, quanti volti, quante storie da raccontare, ed il Libano sicuramente è stato fonte di numerose di esse. Mentre esploro il Nord del paese passo da Byblos, seduto sul porto al Fishing Club di Pepe Abed osservo le foto degli ospiti illustri che negli anni 60 frequentavano questo locale; le foto di David Niven, Marlon Brando, la Ekberg, la Bardot sono appese al muro a testimonianza di un periodo d’oro ormai tramontato, tra i personaggi del jet set internazionale scorgo anche Aldo Moro. Mi inerpico poi sulle montagne alla ricerca di un pò di aria pulita. Bcharre e' un paesino posto alla fine della meravigliosa valle di Qaddisha, sarebbe anonimo se non possedesse uno dei pochi impianti sciistici del Libano. Pochi invece sanno però, che questo villaggio possiede una delle sole tre "foreste" di cedri che sono ormai rimaste in Libano. Ampia un paio di ettari, questa riserva ospita poco più di duecento esemplari di Cedro del Libano (lo stesso albero che compare nel vessillo nazionale) che una volta ricoprivano l’intero paese. L'esportazione di legname verso l'Egitto avviò la fortuna dei Fenici ma diede inizio ad un lento ed inesorabile disboscamento fino a rendere il Libano una unica successione di montagne spoglie. Alcuni dei pochi esemplari rimasti hanno circa 2.000 anni, mentre accarezzo la corteccia di uno di questi giganti mi vengono i brividi pensando a quanta storia possa essere sopravvissuto. Forse sotto questo albero ha giocato da bambino Gibran Kalil Gibran, la sua casa natale, e la sua tomba, sono a pochi metri da qui. Poeta, scrittore e pittore contraddistinto da un umanità oltre misura, le sue opere sono capaci di suscitare emozioni a chiunque le legga. Quando morì nel 1931 negli Stati Uniti, aveva solo 48 anni, per l'occasione il giornale "The New York Sun" annuncio: "a prophet is dead".Chiese di venire inumato nel suo paesino d'origine e lasciò tutti i diritti d'autore agli abitanti di Bcharre per opere di pubblico beneficio. Un'altra valle in Libano e' tristemente famosa, quella della Bekaa, fu qui che negli anni 80 durante la guerra civile ebbero luogo gli scontri più feroci. Ora regna la pace. Forse troppa pace. Nessun turista, dei pochi che si recano in Libano, visita il meraviglioso Tempio di Baalbek nella Valle della Bekaa. Qui si trova la pietra piu' grande mai lavorata dalla mano dell'uomo, e' lunga 24 metri, si stima che pesi 1.000 tonnellate. E' stata poggiata con delicatezza e precisione alla base del Tempio, nessuno ancora osa avanzare nessuna ipotesi su come possano avere fatto a compiere tale impresa. Ma nessuno sa di questa pietra, la gente ha paura recarsi fin qua, anche gli stessi libanesi.. anche questo e' territorio Hezbollah. E' da queste anguste valli, che somigliano più a canyon, che provengono i militanti della Resistenza Islamica. Forse è stato l'essere nati in luoghi così impervi che li ha dotati di caparbietà e tenacia. Ma queste valli, rese impenetrabili dalla natura e difese con ardimento dai suoi abitanti, stanno diventando le loro stesse prigioni. Termina con la visita a questo poderoso tempio il mio soggiorno in Libano, la Giordania mi aspetta..

 

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